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Intervista alla Quadriennale

Come ti definiresti oggi?
Un artista.

Come descriveresti la tua pratica?
Faticosa.

Come inizi un lavoro? Come decidi quando è finito?
Per necessità, per caso, per noia. Quando è finito, lo decide lui.

Pensi mai alla risposta del pubblico nell’affrontare una nuova opera?
No.

Che cosa ottieni dal fare arte? Che cosa vorresti che gli altri ottenessero dal tuo lavoro?
Sono questioni che ho smesso di pormi.

C’è un’opera di cui ti sei pentito? Qual è l’errore più grande che si può fare in un lavoro, a tuo parere?
No, nessun pentimento. L’errore più grande è forse il disamore.

Qual è la cosa più difficile che hai fatto finora?
Districarmi sulla cima del Sassolungo.

Quando hai iniziato a pensarti come artista? È qualcosa che hai desiderato fin da bambino, come essere un astronauta o una ballerina?
Alle scuole medie, sfogliando alcuni libri di storia dell’arte, ho intravisto qualcosa che mi incuriosiva.

L’arte è un’urgenza per te?
Credo che l’arte sia la più alta forma di speranza.

Ti capita mai di non lavorare?
Sì, ed è una condizione che faccio fatica a sopportare.

Si può essere artisti per tutta la vita?
Sì.

 

Marta Papini, Alberto Tadiello, Lo stato delle cose, in AA.VV. (a cura di), XVI Quadriennale D’Arte. Altri tempi, altri miti, Nero Editions, Roma 2017, p. 170.